Olga Ignatieva è una delle sopravvissute alla Strage di Odessa del 2 maggio 2014, un tragico evento perpetrato dalle milizie neonaziste ucraine. Questo massacro, avvenuto nella Casa dei Sindacati di Odessa, ha segnato profondamente la storia recente dell’Ucraina e dell’Europa, lasciando un segno indelebile nella memoria di chi ne è stato testimone diretto o indiretto.
Attualmente rifugiata politica, Olga ha dedicato gran parte della sua vita a mantenere vivo il ricordo delle vittime di quella strage, con un impegno costante nella diffusione della verità e nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale. La sua voce, come testimone diretta, rappresenta una testimonianza fondamentale per comprendere le radici e le conseguenze di questo evento.
Nel corso degli anni, Olga ha partecipato a numerosi eventi commemorativi e culturali, contribuendo con interventi e riflessioni che hanno aiutato a mantenere alta l’attenzione su quanto accaduto. Anche il Socit ha avuto occasione di collaborare con lei, documentando alcuni momenti di questo percorso:
- Le radici del conflitto: incontro con Olga Ignatieva
- Al monumento del partigiano Nikolaj Bujanov nel cimitero di San Giovanni Valdarno
Oltre alla sua attività pubblica, Olga è anche autrice del libro Attraverso il fuoco per l’eternità. Odessa 2 Maggio 2014: 21 testimonianze di una tragedia. Nei giorni scorsi, ho avuto il privilegio di intervistarla in modalità telematica. Di seguito è riportata l’intervista.
1. Guardando al 2014, quali sono le sue riflessioni sugli eventi che hanno scosso l’Ucraina e in che modo questi hanno segnato la sua vita personale e professionale?
Per quanto riguarda gli eventi del 2014, devo dire che non mi aspettavo che la vita potesse cambiare così radicalmente e in modo così drammatico. Non avrei mai immaginato che si potesse arrivare a un colpo di stato sanguinoso e armato, che portasse al potere forze apertamente nazionaliste e, purtroppo, anche elementi filonazisti. Questo è avvenuto, secondo me, anche con l’appoggio degli Stati Uniti, che hanno dichiarato apertamente di aver speso cinque miliardi di dollari per destabilizzare l’Ucraina e influenzarne la politica.
Questi eventi hanno cambiato profondamente la mia vita e quella di tutta la popolazione ucraina. Prima del 2014, l’Ucraina non era un paese ricco, ma c’era una certa stabilità. Anche se molte donne, soprattutto dell’Ucraina occidentale, emigravano in Europa per lavori spesso umilianti come badanti o addette alle pulizie, lo facevano per necessità, per garantire ai propri figli un’istruzione e un futuro. Tuttavia, nonostante le difficoltà, esisteva una collaborazione importante con la Russia, che contribuiva allo sviluppo e alla sopravvivenza economica del paese.
Dopo il colpo di stato, tutto è cambiato in peggio. Personalmente lo definisco un colpo di stato armato e sanguinoso, che ha portato al potere un governo filonazista e ha trasformato l’Ucraina in un paese ostile verso la Russia e la sua stessa popolazione russofona. Questo ha portato a persecuzioni, in particolare contro la lingua russa, che rappresentava un elemento fondamentale di unità. La maggior parte degli ucraini e dei russi, infatti, condivide una storia, una cultura, delle tradizioni e persino degli eroi comuni. Dopo il 2014, però, sono iniziati tentativi di eliminare la lingua russa, vietarne l’uso e relegarla a un livello di pericolo sociale.
Nelle città in cui la popolazione è prevalentemente russofona, come Odessa, è diventato molto rischioso parlare russo o esprimere opinioni favorevoli alla Russia. La situazione era così grave che persino conversazioni private tra amici potevano trasformarsi in una minaccia. Questo clima di paura ha cambiato radicalmente la mia vita, sia personale che professionale. Prima del 2014, si poteva avere una visione positiva del futuro, anche con difficoltà economiche, perché c’era una fiducia nel progresso. Ma dopo, tutto è peggiorato.
In risposta a questi cambiamenti, è nato un movimento antifascista e antimaidan, di cui ho fatto parte. Abbiamo cercato pacificamente di difendere i nostri diritti: il diritto di parlare russo, di mantenere la nostra storia sovietica e russa, la nostra religione ortodossa e le nostre tradizioni legate alla Russia. Odessa, come molte altre città del sud-est, ha sempre parlato russo e ha avuto un’identità culturale russa.
La mia vita professionale è stata segnata da questa situazione. Sul lavoro non era più possibile esprimere liberamente le proprie opinioni o parlare tranquillamente in russo. Anche se l’obbligo di usare esclusivamente l’ucraino non era ancora stato imposto, si percepiva un’atmosfera di crescente oppressione e controllo. Questo ha creato un senso di insicurezza e instabilità psicologica. Vivere è diventato difficile, e anche le interazioni quotidiane richiedevano attenzione e prudenza, per evitare possibili ritorsioni da parte di chi appoggiava il nuovo regime.
2. Le marce pacifiche del 2014 chiedevano un referendum per trasformare l’Ucraina in un paese federativo. Quali erano le speranze dei manifestanti e come sono state accolte dalle autorità? Crede che le loro richieste siano state comprese o mal interpretate?
Le marce pacifiche che abbiamo organizzato dal febbraio al primo maggio 2014 avevano come obiettivo principale quello di chiedere un referendum, seguendo le procedure legali e costituzionali, per decidere il futuro del nostro paese. In particolare, volevamo esplorare la possibilità di trasformare l’Ucraina in una Repubblica Federativa, che avrebbe permesso a diverse regioni, pur restando parte dello stesso Stato, di mantenere una certa autonomia e di adottare leggi che garantissero i diritti e le specificità locali.
Questa proposta era motivata dal desiderio di proteggere la nostra lingua madre, il russo, e di preservare la nostra storia e i nostri eroi legati alla tradizione russa e sovietica. Volevamo anche tutelare la nostra religione ortodossa, che consideriamo profondamente radicata nella nostra identità. Ad esempio, la Chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca è sempre stata parte integrante della nostra cultura e della nostra spiritualità. Kiev, che storicamente è la ‘madre delle città russe’, è il luogo in cui è avvenuto il primo battesimo della Rus’ di Kiev, un evento fondamentale per l’intera ortodossia. Non accettavamo l’idea di una nuova chiesa, come quella creata da Poroshenko e Costantinopoli, che percepiamo come una struttura artificiale, simile a una setta, piuttosto che a una vera istituzione religiosa.
Un altro punto fondamentale delle nostre richieste riguardava i monumenti e gli eroi storici. Abbiamo chiesto che i monumenti legati alla nostra storia sovietica e russa non venissero distrutti. Per esempio, a Odessa, quest’anno hanno abbattuto il monumento a Caterina la Grande, la fondatrice della nostra città. Sotto il suo governo, Odessa è diventata una delle città portuali più importanti dell’Impero Russo e la terza città per importanza dopo Mosca e San Pietroburgo. Distruggere un monumento del genere significa cancellare la nostra storia. Lo stesso vale per il monumento a Aleksandr Puškin, il grande poeta russo, che visse e lavorò a Odessa, lasciandoci opere importanti. Quel monumento non appartiene a un regime politico, ma alla memoria collettiva della città e dei suoi cittadini, che lo eressero in onore di Puškin.
Inoltre, siamo stati contrari all’eroizzazione di figure come Stepan Bandera e Roman Shukhevych, che collaborarono con il regime nazista e furono responsabili di massacri contro civili, ebrei, russi, polacchi, comunisti e prigionieri sovietici. Per noi, i veri eroi sono quelli che hanno combattuto il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, non chi ha tradito la patria collaborando con Hitler.
Infine, è importante sottolineare che abbiamo chiesto pacificamente che la nostra storia e i suoi simboli non venissero cancellati o strumentalizzati. Per esempio, il monumento a Lenin, che fu abbattuto in molte città ucraine, rappresentava una figura storica legata alla creazione dell’Ucraina Sovietica. Prima dell’Unione Sovietica, infatti, l’Ucraina non esisteva come entità nazionale; il termine ‘Ucraina’ derivava da una parola che significava ‘confine’ o ‘frontiera’, riferendosi a un’area geografica e non a un popolo specifico.
Le nostre richieste, purtroppo, non sono state ascoltate dalle autorità. Non solo sono state ignorate, ma sono state anche mal interpretate e strumentalizzate, portando a un’escalation di tensioni che ha avuto conseguenze devastanti per la nostra regione e il nostro paese. Le autorità sapevano bene cosa volevamo, perché le stesse richieste arrivavano dal Donbass (Donetsk e Lugansk), così come da Kharkov, Zaporozhye, Nikolaev e altre città più piccole. Però questo per loro rappresentava una minaccia, soprattutto perché un sistema federativo avrebbe trattenuto il 70% delle risorse economiche prodotte nel sud-est nelle nostre regioni, lasciando solo il 30% al governo centrale da dividere con le regioni centrali e occidentali. Questo ovviamente non era accettabile per loro.
Anche sulla lingua e la religione, questioni che uniscono un popolo e portano con sé la storia e le radici di una nazione, il governo filonazista del golpe si opponeva apertamente. Hanno preferito etichettarci come separatisti, ma noi non chiedevamo l’indipendenza dall’Ucraina. Volevamo solo difendere i nostri diritti umani: il diritto di usare la nostra lingua, praticare la nostra religione e preservare la nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra storia. Queste richieste riflettevano il pensiero della maggioranza anche in altre regioni, ma in molte città centrali era troppo pericoloso esprimersi apertamente.
Non c’è stato alcun malinteso da parte delle autorità: hanno deliberatamente distorto le nostre richieste per accusarci di separatismo e giustificare la repressione. Paradossalmente, i veri separatisti erano quelli dell’Ucraina occidentale, che cercavano di frammentare la nazione e alterare la storia, rivendicando regioni storicamente russe, come Leopoli e l’intera Galizia, per cederle alla Polonia. Noi invece non eravamo separatisti: stavamo difendendo la nostra storia, la nostra religione e le nostre origini.
3. Il Campo Kulikovo ha giocato un ruolo importante durante le manifestazioni. Potrebbe descrivere cosa è accaduto lì e quale significato ha assunto questo luogo per la comunità locale e per la memoria collettiva?
Il Campo Kulikovo era il cuore della resistenza contro il neonazismo che aveva preso il potere in Ucraina. Qui abbiamo creato una tendopoli, simbolo della nostra opposizione. Non era solo un luogo fisico per la città di Odessa, ma anche un simbolo per tutta l’Ucraina. Simile al Donbass, il Campo Kulikovo rappresentava un centro cruciale della resistenza.
Nella tendopoli avevamo installato un grande palco e un monitor gigante che trasmetteva notizie dai canali russi, già informalmente vietati in Ucraina perché portavano una narrazione diversa da quella del governo. Era l’unico modo per mostrare la realtà che il regime ucronazista voleva nascondere.
Il Campo Kulikovo era molto più di un semplice spazio: ogni sera, dopo il lavoro, le persone si riunivano per discutere, esprimere le proprie opinioni e decidere come organizzare le marce pacifiche della domenica. Dal 23 febbraio 2014, ogni domenica si tenevano marce pacifiche nelle vie centrali di Odessa per chiedere il referendum e dimostrare la nostra presenza e il nostro numero, sempre crescente. Con il tempo, queste manifestazioni divennero sempre più partecipate e, di conseguenza, più minacciose per il governo golpista filonazista.
Il Campo Kulikovo è diventato un luogo simbolico per la memoria collettiva della resistenza contro un regime che voleva cancellare la nostra identità, lingua e cultura.
Il 2 maggio 2014 al Campo Kulikovo si è consumata una strage premeditata e pianificata con l’obiettivo di terrorizzare non solo i cittadini di Odessa e dell’est dell’Ucraina, ma tutta la popolazione del Paese. Con questa azione brutale, il governo golpista e le forze neonaziste volevano dimostrare che chiunque alzasse la voce contro di loro sarebbe stato punito con la morte, violenze o umiliazioni.
Gli eventi di quel giorno sono iniziati in modo apparentemente casuale, ma erano chiaramente orchestrati. Utilizzando come pretesto una partita di calcio, già settimane prima del 2 maggio erano stati fatti arrivare a Odessa militanti notoriamente violenti, inclini alla crudeltà e al massacro, con il preciso scopo di colpire gli antifascisti e i manifestanti del Campo Kulikovo, considerati nemici mortali.
Il primo teatro della violenza è stato il centro città, dove si trovavano sia i manifestanti del Campo Kulikovo che una folla di circa 3.000 sostenitori di Maidan, tra cui molti militanti armati e organizzati. Questi ultimi hanno iniziato lanciando pietre e fumogeni, in un’azione chiaramente professionale, mentre i manifestanti del Campo cercavano di rispondere con sassi e bastoni, senza avere né esperienza né preparazione militare. Successivamente, i militanti pro-Maidan hanno usato bottiglie incendiarie e sparato con armi da fuoco, uccidendo indiscriminatamente.
Le prime vittime sono state due sostenitori di Maidan, uccisi da cecchini inviati appositamente per uccidere gli stessi sostenitori del Majdan, in modo da giustificare un’escalation di violenza contro i manifestanti antifascisti. Da fonti ufficiali si parla di quattro morti tra i manifestanti di Kulikovo e due tra i sostenitori di Maidan, ma testimoni oculari e fonti non ufficiali riportano un numero molto più alto di vittime, incluse quelle tra la polizia, che era stata inviata disarmata e incapace di fermare il massacro.
Dopo gli scontri in centro, i militanti sono stati diretti al Campo Kulikovo. Lì, la tendopoli, simbolo della resistenza antifascista, è stato rapidamente distrutta e bruciata. I manifestanti, disarmati sono stati costretti a rifugiarsi nella vicina Casa dei Sindacati. Questo edificio, invece di offrire riparo, è diventato una trappola mortale, poiché era stato preparato in anticipo per l’attacco: in certi momenti le luci e l’acqua sono state disattivate e gli attrezzi per spegnere le fiamme danneggiati già precedentemente.
I militanti hanno incendiato il campo e poi l’edificio, utilizzando bottiglie molotov e sostanze chimiche che generavano un fumo tossico, rendendo quasi impossibile respirare. Testimoni parlano di un gas strano dal colore verde-viola-nero particolarmente soffocante e di un fuoco alimentato in modo tale da massimizzare le vittime. Alcuni manifestanti, disperati, hanno tentato di fuggire attraverso le finestre, ma sono stati colpiti da bottiglie incendiarie e proiettili. Le donne, che cercavano di prendere una boccata d’aria chiedendo di non essere uccise o bruciate sono state bersagliate e, in molti casi, uccise.
Dopo l’incendio, i sopravvissuti sono stati catturati, picchiati, derubati e in alcuni casi accoltellati o giustiziati. Alcuni corpi mostrano segni di violenze indicibili, tra cui ustioni chimiche che hanno colpito specificamente testa e mani. Si parla anche di armi chimiche sperimentali, come confermato in seguito da esperti russi, ma le prove non sono mai state ufficialmente riconosciute.
La strage del Campo Kulikovo è stata un atto di terrorismo e un crimine contro l’umanità, eseguito davanti alle telecamere e trasmesso in diretta, come un messaggio per tutta l’Ucraina: chi resiste sarà annientato. Questo evento è diventato un simbolo della crudeltà e dell’impunità del regime golpista, e un monito per chiunque cerchi di opporsi.
I miei compagni uccisi di Odessa rimangono un capitolo oscuro nella storia recente dell’Ucraina e dell’Europa e il Campo Kulikovo rappresenta ancora oggi il coraggio di tutti noi che abbiamo cercato di difendere la propria identità e il proprio diritto a vivere secondo le nostre tradizioni.
Durante gli eventi del 2 maggio 2014, io e un gruppo di compagni siamo riusciti a rifugiarci in una stanza al terzo piano della Casa dei Sindacati. Eravamo circa diciotto persone, tra cui dieci uomini e otto donne. Abbiamo tentato di resistere barricandoci con tutto ciò che trovavamo: mobili e oggetti presenti nell’ufficio.
Per ore abbiamo affrontato i continui attacchi. Loro cercavano di sfondare, lanciavano vetri, gas e vari oggetti. Alla fine, hanno rotto i vetri, forzato la porta e persino sparato con pistole. A quel punto siamo stati sopraffatti. Quando sono riusciti a entrare, ci hanno costretto a stenderci sul pavimento e hanno iniziato subito a picchiare gli uomini con crudeltà.
Un dettaglio mi ha colpito profondamente: una delle persone che è entrata sembrava conoscere perfettamente il posto. Sapeva immediatamente dove accendere le luci, dimostrando che questa operazione era stata pianificata nei minimi dettagli.
Subito dopo, un uomo tra gli aggressori, a torso nudo e armato di bastone, ha urlato: “Non toccate le donne!”. Questa richiesta è stata discussa ma questo ragazzo era molto deciso e dietro di lui sono arrivati altri ragazzi, anch’essi armati di bastoni. Con nostra sorpresa, hanno deciso di risparmiare le donne, portandoci via senza infliggere ulteriori violenze. Questi erano filo-maidanisti locali, cioè di Odessa e regione, che vedendo l’orrore portato dai banderisti filonazisti, arrivati principalmente dall’Ucraina occidentale, delusi e scioccati da quanto visto hanno deciso di provare a salvare qualcuno.
4. Come valuta il ruolo dei media nazionali e internazionali durante gli eventi del 2014 in Ucraina? Pensa che la realtà sia stata raccontata in modo adeguato o che vi siano stati fraintendimenti significativi?
I media nazionali ucraini non hanno mai detto la verità, nemmeno in passato, così come non lo fanno ancora oggi. Non solo i media ucraini, ma anche quelli occidentali, europei e italiani, diffondono bugie che si adattano ai loro interessi, senza mai cercare di raccontare la verità, nemmeno in minima parte. Tutto viene distorto, ribaltato e presentato in modo diverso dalla realtà.
Ad esempio, l’Unione Europea ci ha accusati e condannati di aver appiccato noi stessi l’incendio nella Casa dei Sindacati, un’accusa assurda. Dai video si può chiaramente vedere che sono stati lanciati esplosivi dall’esterno. Inoltre, hanno diffuso l’assurda menzogna che i responsabili fossero paracadutisti russi, un’altra provocazione infondata. Questo tipo di bugie è lo stesso che abbiamo visto in altre occasioni, come il caso di Bucha o gli attacchi agli ospedali.
È evidente che i media continuano a manipolare i fatti, ribaltando la verità e coprendo tutto ciò che non si allinea alla loro narrazione. Questo è il modus operandi sia dei media ucraini che di quelli occidentali, italiani ed europei.
5. Nel suo libro accenna a episodi di violenza, come rapimenti e omicidi di manifestanti e giornalisti. Come descriverebbe il clima di repressione di quel periodo, e quali sono le storie o le testimonianze che l’hanno colpita di più?
Gli episodi di violenza avvenuti in Ucraina durante il periodo del colpo di stato filo-nazista sono stati terribili. Ad esempio, nel 2015, un giornalista è stato ucciso. Questo giornalista, che credeva nella convivenza pacifica tra ucraini e russi, sosteneva che le due culture dovessero coesistere, affermando che senza la cultura russa l’Ucraina non poteva esistere. Partecipava a trasmissioni televisive in Russia, difendendo la possibilità di una risoluzione pacifica del conflitto. Nonostante gli amici e colleghi russi lo avessero avvertito del pericolo e gli avessero chiesto di non tornare in Ucraina, lui è tornato a Kiev, credendo nella forza della parola. È stato ucciso davanti alla sua casa dagli estremisti ucraini appoggiati dal governo: hanno sparato al suo petto e poi alla testa. Gli assassini sono stati arrestati ma rilasciati poco dopo, su pressione di altri estremisti che li consideravano “eroi”.
Un altro episodio risale a marzo 2014, poco prima della strage del 2 maggio a Odessa. Anton Davidcenko, un leader delle manifestazioni pacifiche contro il governo ucraino filo-Maidan nel marzo 2014, fu rapito davanti agli occhi della madre. Lei cercò di difenderlo, ma degli uomini vestiti di nero, senza identificativi, le spararono ai piedi per farla desistere. Anton fu portato via e passò diversi mesi nel carcere SBU di Kiev. Lui stesso diceva sempre: “Se prendono me, un altro prenderà il mio posto”. E così fu. Durante la strage di Odessa del 2 maggio 2014 alcune persone, intrappolate nella Casa dei Sindacati, cercavano di salvarsi lanciandosi dai davanzali. Una donna, dopo aver esitato a lungo, ha deciso di scendere. Gli assalitori le dicevano di non preoccuparsi, che l’avrebbero aiutata, ma appena è scesa l’hanno trascinata vicino al muro, dove c’era un’altra donna. A quel punto, uno degli aggressori ha versato benzina su di loro e, accendendo un fiammifero, ha urlato che le avrebbe bruciate vive. La donna, in preda allo shock, è riuscita a correre via, lasciando gli assalitori attoniti. Alla fine, è stata salvata grazie all’intervento di una persona che l’ha portata via.
Ricordo di essere stata identificata dalla tunica che indossavo, preparata per il 9 maggio, Giorno della Vittoria contro il Nazifascismo. Sulla schiena era scritto: “Giorno della Vittoria”. Uno degli assalitori, vedendo questa scritta, si arrabbiò bestiosamente e voleva strappare a pezzi la scritta. Alla fine, altri due intervennero e aiutarono a togliere la tunica, soltanto dopo mi lasciarono passare, ma non dimenticherò mai il suo sguardo pieno di odio mortale. Quando uscimmo, vidi corpi coperti con bandiere ucraine. Pensai inizialmente che fossero assalitori morti, ma poi scoprii che si trattava di nostri compagni, giovani torturati e uccisi. Uno di loro, Vadim Papura, un ragazzo di 17 anni, era stato barbaramente torturato: bruciature sulla fronte, tagli sul collo, una guancia bucata, il corpo trafitto dalla schiena al cuore con un qualcosa di tagliente, un braccio rotto e tutte queste ferite vennero fatte mentre era ancora vivo. La crudeltà con cui fu trattato non è descrivibile.
Quando Anton Davidcenko era stato rapito si diceva che fosse stato portato nella sede dei servizi di sicurezza (SBU) di Odessa, e questo ha spinto molti di noi a mobilitarsi. Decidemmo di andare lì, e quel giorno, un gruppo di manifestanti che solitamente si trovavano al Campo Kulikovo si mosse verso la sede. Non ricordo esattamente se fosse venerdì o Lunedì, ma ci radunammo, manifestammo, e attendemmo delle risposte. Allo stesso tempo, mentre aspettavamo un ufficiale con le informazioni, ci fu una discussione molto particolare riportata anche in un articolo di Timer, una risorsa online il cui caporedattore era noto tra noi. Questo articolo descriveva il nostro gruppo di manifestanti al Campo Kulikovo, che includeva persone con visioni antifasciste e antinaziste, come un collettivo intellettualmente vivace. Mentre stavamo aspettando vicino allo SBU ci trovammo a discutere un tema storico curioso: chi fosse arrivato per primo a Odessa, gli italiani o i greci. Io, appassionata di storia e dei legami tra Odessa e l’Italia, sostenevo che fossero stati gli italiani, anche se uno dei presenti, di origini greche, difendeva l’idea opposta. Questo episodio dimostra non solo il livello culturale di molti manifestanti, ma anche la profondità degli interessi storici e culturali di chi partecipava al movimento.
Un altro episodio che ricordo con grande emozione è stato l’incontro con due giovani giornalisti italiani che visitarono il nostro campo prima del 2 maggio. Si trattava probabilmente di giornalisti indipendenti, interessati a capire meglio il nostro movimento. Quando li vidi, mi avvicinai e iniziammo a parlare in italiano. Condivisi con loro alcune riflessioni sulla resistenza italiana e sul ruolo dei partigiani sovietici nella resistenza Italiana durante la Seconda Guerra Mondiale. Uno di loro mi raccontò che suo padre era stato partigiano, e parlammo brevemente di questo tema. Mi dispiace non aver annotato i loro nomi o dettagli per rintracciarli successivamente. Sono convinta che abbiano scattato delle foto e documentato qualcosa, ma non sono riuscita a trovare alcun materiale su di loro online.
Questi episodi, sebbene apparentemente marginali, dimostrano quanto il nostro movimento fosse composto da persone di ogni estrazione sociale, con diversi livelli di istruzione, professioni e competenze. Al Campo Kulikovo c’erano insegnanti, traduttori, studiosi e altre figure professionali. Questo aspetto è evidente anche nel mio libro, dove alcune testimonianze raccontano di persone che, pur in un clima di grave tensione, trovavano il tempo e la volontà di confrontarsi su temi storici e culturali, mostrando l’ampiezza degli interessi intellettuali del nostro gruppo. Ritengo che queste storie possano interessare anche i lettori italiani, perché mostrano l’umanità e la complessità del movimento di opposizione di quei giorni.
Ciò che più mi sconvolge è il silenzio dell’Occidente su questi eventi. Solo la Russia e il presidente Vladimir Putin condannarono la strage, definendola un crimine contro l’umanità. Questo silenzio è assordante e inaccettabile. Questi atti di violenza, che ho vissuto e visto con i miei occhi, non dovrebbero accadere nel ventunesimo secolo.
6. Lei menziona la cultura e la religione ortodossa come valori condivisi tra la popolazione russa e ucraina. In che modo questi elementi hanno influenzato i rapporti tra le due comunità durante gli eventi del 2014? Pensa che possano ancora rappresentare un ponte verso la riconciliazione?
La religione ortodossa è un elemento comune tra i cittadini ucraini e russi, un ponte che ha unito e continua a unire queste due realtà. Per me, non esiste una distinzione tra “etnia ucraina” e “etnia russa”, specialmente nella mia città e in molte altre parti dell’Ucraina. Molti di quelli che si definiscono “ucraini” lo fanno semplicemente perché questa è stata l’identità ufficiale per settant’anni, ma le radici sono comuni. Tuttavia, negli ultimi anni, sono arrivati in Ucraina gruppi estremisti, spesso definiti “ucrono-nazisti” o “banderisti”, che hanno seminato odio, non solo contro i russi ma anche verso se stessi. Non si può costruire un futuro su un’ideologia basata sull’odio verso un altro popolo o nazione.
La religione ortodossa, legata al Patriarcato di Mosca, ha sempre rappresentato un fattore di unità, e proprio per questo è stata perseguitata e infine proibita dalla legge. Le autorità attuali vedono nella religione ortodossa una minaccia, poiché essa fungeva da ponte tra la popolazione russa e quella ucraina, o tra due parti dello stesso popolo, come preferisco considerarlo. Ora, i fedeli ortodossi subiscono persecuzioni, vengono sequestrate le chiese, rubate le icone e profanati i luoghi di culto. Questo accade perché il governo vuole eliminare qualsiasi legame con la cultura russa e separare profondamente le due comunità.
Questa situazione non è nuova nella storia. Già durante l’Impero Austro-Ungarico, nelle regioni della Galizia, della Bucovina e della Transcarpazia, si cercò di dividere il popolo russo cambiandone la lingua e la religione. Fu creata la Chiesa greco-cattolica, che era essenzialmente cattolica, e la popolazione fu spinta con la forza a identificarsi come “ucraina”, adottando una lingua modificata con influenze polacche. Chi si opponeva veniva ucciso, deportato o imprigionato nei campi di concentramento. Lo stesso sta accadendo ora: chi non accetta l’identità ucraina contemporanea, la lingua ucraina e la nuova ideologia religiosa non ha un futuro nel paese.
La religione ortodossa, quindi, rimane un simbolo di identità e unità per il popolo russo nel suo complesso, che include russi, ucraini e bielorussi, considerati parte di un’unica grande comunità storica. Per questo motivo, viene vista come un pericolo sia dagli estremisti al potere in Ucraina sia da altre potenze occidentali, che cercano di frammentare ulteriormente il popolo russo.
A mio avviso, l’Ucraina, dopo i tragici eventi del 2 maggio 2014 e il percorso intrapreso successivamente, non può più essere considerata come era prima. La religione ortodossa avrebbe potuto essere un ponte verso la riconciliazione, ma coloro che governano il paese cercano di distruggerlo, impedendo ogni possibilità di dialogo e riavvicinamento tra le comunità.
7. Qual è la sua opinione sulla reazione della comunità internazionale agli eventi di Odessa e dell’Ucraina orientale nel 2014? Pensa che ci sia stata una risposta adeguata da parte dei paesi occidentali?
La reazione dell’Occidente alla strage di Odessa è stata vergognosa. C’è stato un silenzio totale, nessuna condanna adeguata e nessuna richiesta seria di un’inchiesta per individuare e giudicare i colpevoli. Questo silenzio rappresenta una macchia sulla coscienza della comunità europea e anglosassone, che ha ignorato deliberatamente una delle tragedie più brutali del XXI secolo. Solo la Russia ha avuto il coraggio di alzare la voce e denunciare apertamente l’accaduto, sottolineando ancora una volta la propria posizione come difensore dei diritti storici e culturali del popolo russo, compresi quelli in Ucraina.
Nel 2016, la Commissione Europea ha persino approvato una risoluzione in cui si riconosceva implicitamente la responsabilità collettiva delle vittime stesse, senza che venisse condotta alcuna indagine seria. Questo atto non è solo vergognoso, ma criminale, poiché incolpa le vittime e giustifica chi ha eseguito e sostenuto il massacro. Questo atteggiamento dimostra che l’Occidente non solo chiude gli occhi di fronte a tali atrocità, ma le appoggia tacitamente, alimentando un conflitto fratricida che vede russi combattere contro russi.
8. Guardando al futuro, quali speranze ha per le nuove generazioni di ucraini e russi? Quali qualità o valori crede che debbano essere coltivati per garantire un futuro di pace e cooperazione?
Le nuove generazioni di ucraini e russi possono sperare in un futuro fondato su valori condivisi di pace, unità e cooperazione. Per garantire questo futuro, è essenziale coltivare qualità come il rispetto reciproco, la memoria storica condivisa e la capacità di convivere armoniosamente nonostante le differenze culturali e linguistiche. La Russia, da sempre, ha dimostrato come l’unione di diverse tradizioni e nazionalità possa arricchire una società, promuovendo collaborazione e amicizia tra i popoli.
In contrapposizione, l’Ucraina attuale sembra costruire la propria identità sull’odio e sulla divisione, attraverso una narrazione storica che nega le radici comuni con la Russia. Questo atteggiamento non porta progresso, ma solo distruzione e alienazione. Il futuro, invece, dovrebbe vedere il superamento di queste barriere artificiali e un ritorno alla fratellanza storica tra ucraini e russi.
Credo che la riunificazione dell’Ucraina con la Russia rappresenti la strada naturale per recuperare questa unità. La Russia non ha mai ostacolato le tradizioni ucraine, ma le ha sempre rispettate, garantendo la libertà di espressione culturale e linguistica. Un futuro di pace richiederà il rifiuto dell’odio e della violenza, e l’abbraccio di valori come l’amore per la propria cultura, l’apertura verso gli altri e la volontà di costruire insieme un mondo migliore.
9. Per concludere, qual è il messaggio principale che spera di trasmettere attraverso il suo libro? Cosa desidera che il lettore comprenda o ricordi dopo aver letto la sua testimonianza?
Il messaggio centrale del mio libro è che tragedie come la strage di Odessa non devono mai essere dimenticate. Questi crimini di odio vanno riconosciuti, condannati e giudicati, affinché non si ripetano. Attraverso la mia testimonianza e quelle di altre venti persone, il libro mette in luce le radici storiche profonde di questo conflitto, ribadendo che il popolo ucraino è parte inscindibile del popolo russo, un legame che non può essere spezzato con la forza o la manipolazione ideologica.
Le vittime di Odessa non sono solo martiri, ma eroi, che hanno difeso la loro storia, lingua e religione di fronte a un odio disumano. Il loro sacrificio rappresenta un monito per il mondo: il neonazismo e la violenza distruggono, mentre l’unione, la fratellanza e la collaborazione costruiscono un futuro di pace. Questo libro vuole ricordare che solo l’amore per le radici comuni e il rispetto reciproco possono portare a un mondo migliore.
Le richieste per acquistare il libro si possono fare tramite mail: lavita.odessita@mail.ru