Intervista a Maurizio Fiorentini e Roberto Valtolina, autori del libro “The Masquerade Reloaded”

In questa intervista, Maurizio Fiorentini e Roberto Valtolina, autori di The Masquerade Reloaded (Disponibile qui), ci guidano attraverso i meccanismi storici e politici che hanno plasmato l’Italia degli anni Settanta. Il libro rappresenta un’indagine profonda e documentata su un decennio dominato da tensioni sociali, terrorismo e giochi di potere, con un’attenzione particolare al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro. Fiorentini, figura di spicco dell’Autonomia Operaia romana, e Valtolina, giornalista d’inchiesta, intrecciano memoria personale e rigore analitico per affrontare uno dei periodi più controversi della storia contemporanea italiana, illuminando gli intrecci tra politica interna, dinamiche internazionali e narrazioni ufficiali. Questa introduzione al loro lavoro apre le porte a una riflessione sulla memoria collettiva e sulle ombre che ancora avvolgono la storia di quegli anni, proponendo un approccio narrativo innovativo e ricco di spunti inediti. Di seguito l’intervista.

Quali circostanze e motivazioni vi hanno spinto a collaborare per scrivere “The Masquerade Reloaded”? Potreste condividere come è nata l’idea di affrontare un periodo storico così complesso e delicato come quello del decennio 1970-1980 in Italia?

Gli autori del libro sono Maurizio Fiorentini, classe ‘58, responsabile del Collettivo di Controinformazione “I Volsci” dell’Autonomia operaia romana, e Roberto Valtolina, classe ‘87, giornalista d’inchiesta. L’idea di ricostruire una stagione così intricata è nata dall’esigenza di valorizzare il vissuto di Fiorentini – che visse quegli anni a stretto contatto con terroristi rossi e neri – e il mio lavoro di ricerca sugli “anni di Piombo”. Ci siamo conosciuti un po’ di anni fa, quando contattai Maurizio per una ricerca che stavo effettuando sulla figura di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore rosso morto a Segrate il 14 marzo 1972, sotto un traliccio. Ci trovammo subito d’accordo sulle chiavi di lettura da applicare a “Osvaldo”, come lui si faceva chiamare dai fedelissimi: un’agente di influenza che ebbe un ruolo cruciale nell’indirizzare la galassia extraparlamentare di sinistra verso derive terroriste, alla fine degli anni ‘60. Per la prima volta nella bibliografia Feltrinelli è collegato alla vicenda Moro, epilogo del modus operandi gappista delle Br di Mario Moretti. Le motivazioni che ci hanno spinto a documentarci e a scrivere questo libro sono essenzialmente due. Innanzitutto, la nostra storia nazionale ha archiviato il delitto Moro senza averlo esplorato fino in fondo. Eppure le zone d’ombra rimaste inesplorate sono molte. Il libro, uscito per i tipi di Frascati & Serradifalco il 12 settembre, intende illuminarle. Chi erano davvero i brigatisti presenti sulla scena del sequestro? Qual era la provenienza dei proiettili sparati? Quale fu la rete di intelligence che ha agevolato la filiera terroristica culminante nel delitto Moro? Perché Moro non fu liberato? E che fine fece il suo memoriale, steso durante la prigionia? Le risposte date coprono per intero quasi tutto l’arco delle domande.

In secondo luogo, intendiamo sfatare le leggende metropolitane accumulatesi in questi decenni su quel periodo. Una di esse, clamorosa, è divenuta in questi decenni senso comune: lo statista pugliese avrebbe pagato con la vita la sua volontà di portare il Pci al governo del Paese. Nel novembre del 1977 Moro ebbe dei colloqui con l’ambasciatore Usa in Italia, Richard Gardner. In quegli incontri fu proprio Moro, preoccupato che le Br destabilizzassero il quadro politico favorendo i comunisti, a chiedere all’ambasciatore un maggior attivismo statunitense in Italia. Il diplomatico fu rassicurato dalla scelta del politico pugliese di depennare dal nuovo esecutivo Andreotti, che si stava formando, alcuni esponenti del Pci. Una decisione contestata dal futuro Presidente del Consiglio Giulio Andreotti e dal segretario nazionale Benigno Zaccagnini, che si dimise dalla carica. Furioso per una decisione che smentiva clamorosamente le assicurazioni che gli erano state fatte, il Pci votò la fiducia solo dopo la notizia del sequestro dello statista Dc. Moro voleva portare il Pci non al governo, ma nell’area di governo, per logorarlo a medio-lungo termine. Egli fu il negoziatore di una tregua armata, non il creatore di nuovi equilibri sul punto di concretizzarsi.

Il vostro libro è un’opera ampiamente documentata. Potreste descrivere in dettaglio il processo di ricerca che avete seguito, le principali fonti utilizzate, e come siete riusciti a integrare informazioni così diverse e complesse nel vostro lavoro?

I criteri del giornalismo di contro-informazione sono quelli che ci hanno guidato: il nostro lavoro non ha seguito a ruota il carro della magistratura e delle Commissioni parlamentari ma, all’inverso, ha voluto sopravanzarlo, nella speranza che possa stimolare le indagini. Lo storico e il giornalista non devono limitarsi a riferire, ma devono saper esprimere valutazioni autonome dei fatti, pur basandosi sulle carte. L’analisi da noi operata, coerentemente con ciò, ha proceduto prima a uno “smontaggio” sistematico delle carte e dei documenti, poi a una loro riconfigurazione all’interno del nostro quadro concettuale.

La documentazione pantagruelica accumulatisi nei decenni sul caso Moro – solo quella della strage di Piazza Fontana regge il paragone – è stata da noi interamente studiata e assimilata, compresa la bibliografia e gli atti delle Commissioni parlamentari P2, Stragi e Mitrokhin. Le principali fonti da noi utilizzate sono state gli atti giudiziari dei processi Moro e la documentazione che le Commissioni parlamentari Moro via via de-secretavano con il passare degli anni.Gradualmente, data la sovrabbondanza delle fonti disponibili sul decennio 1970-80 (salvo quelle segretate), come autori abbiamo affrontato e superato il problema di selezionarle, organizzarle, utilizzarle o scartarle tramite ponderati carotaggi. Questo ci ha consentito di integrare le fonti acquisite con altre di natura più insolita e di non riservare eccessiva attenzione al particolare, prassi che rischia di far dimenticare il quadro d’insieme. The masquerade reloaded è un libro non-accademico solo in un senso ben preciso: non ha sviluppato la tendenza all’iper-specialismo, tipica della ricerca accademica.

Per avere una visione il più possibile equilibrata e completa di una temperie storica e dei suoi eventi non si deve dipendere da poche fonti. È preferibile disporne di un certo numero, in modo da confrontarle tra loro. Non è detto, però, che avere un centinaio tra dati e informazioni significhi essere più informati di qualcun altro che ne dispone solo tre o quattro. Ciò che conta è il criterio con cui si scelgono le fonti da usare: se il centinaio di informazioni e dati è mal calibrato o non è stato adeguatamente vagliato dal punto di vista dell’attendibilità, la fase di sintesi avrà un ben scarso valore. Il rischio, in questi casi, è di trovarsi con una massa di notizie impossibili da gestire temporalmente. Abbiamo distinto documenti e fonti fra nazionali ed estere, rappresentative di uno spettro storico-politico ampio, e fra generalistiche e specialistiche. Infine, abbiamo approcciato il materiale che via via si accumulava con la mentalità dell’intelligence: esistono informazioni e documenti dolosamente errati perché qualcuno ha interesse a farli circolare per depistare. Bisogna saperli riconoscere ed escludere dal lavoro.

Avete scelto una narrazione che procede a ritroso, dal delitto Moro fino all’incubazione del terrorismo rosso. Qual è stata la ragione dietro questa scelta stilistica e narrativa, e come pensate che questo approccio influenzi l’interpretazione e la comprensione dei lettori?

La bibliografia sul caso Moro e il decennio 1970-80 è enorme. Dunque, le novità storiche e investigative presentate da The masquerade reloaded dovevano calarsi in una cornice letteraria altrettanto originale, mai usata fino ad ora. La trama sviluppata procede controcorrente, a mo’ di salmone. Il motivo è duplice. In primo luogo, vogliamo sottrarre il caso Moro ad una interpretazione centrata sull’immaginario malinconico, per disporre la vicenda in una cornice più ampia. In secondo luogo, fare a meno delle due chiavi narrative classiche impiegate in questo mezzo secolo, entrambe fuorvianti.

Nella morologia la priorità assegnata al modello sacrificale si riflette nell’economia di un racconto fondato unicamente sulla ritualità del capro espiatorio. Esso ha proiettato con la massima evidenza la prospettiva della vittima. La narrazione sacrificale è soprattutto una forma di auto-rappresentazione, la progressiva consapevolezza di essere oggetto di un meccanismo espiatorio, di una persecuzione vittimistica. Nel caso Moro la consapevolezza persecutoria è testimoniata dalle lettere della prigionia con voce straziata: «Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese?» Se questa prospettiva ha il merito di collegare l’esito dell’“operazione Fritz” (così la ribattezzarono le Br) con l’esercizio del potere, non può però istituire la necessaria dialettica interno-esterno che sposti l’attenzione verso un orizzonte non esclusivamente nazionale, che risulta precluso e interdetto alle narrazioni sacrificali. Per noi, i guardiani di Yalta erano due: Usa e Urss, come si evince dalla copertina del libro.

Alla narrazione sacrificale si oppone la teoria cospirazionista. Essa isola un segmento del contesto, creando l’illusione di una totalità significante, di un insieme perfettamente logico e coeso. Ma le sfugge la contingenza costitutiva di ogni processo di accertamento della verità. E l’eterodirezione è una pseudo-categoria che osserva la storia dal buco della serratura (dei servizi segreti), obliando le correnti profonde, visibili e carsiche, che solcano la storia. Essa assolve ad un’esigenza psicologica: rispondere ai quesiti inevasi. La storia mondiale – dalle più minute fino alle massime vicende, come la “strategia della tensione” – sarebbe il prodotto di ricorrenti congiure ordite in centri lontanissimi e onnipotenti. In questa cornice le critiche radicali – e pure giuste – rivolte al sistema politico italiano al timone negli “anni di Piombo”, perdono di credibilità.

Le due strutture antagoniste – narrazione sacrificale e modello cospirazionista – procedono in concordia discors, rafforzandosi reciprocamente. The masquerade reloaded sfugge a questa doppia trappola. Siamo convinti che la nostra chiave narrativa sgombri le lenti del lettore da questo retaggio e gli regali un nuovo contesto.

Nel vostro libro emergono numerose rivelazioni sorprendenti, come il distintivo della Marina militare straniera trovato nel covo delle Brigate Rosse. Quali sono state per voi le scoperte più significative durante la ricerca e la stesura del libro, e in che modo queste nuove informazioni cambiano la nostra comprensione di quel periodo?

Questo distintivo militare Nato rappresenta la scoperta più significativa che abbiamo fatto. Si trova in un verbale della Questura di Roma, steso dopo la perquisizione del covo delle Br di via Gradoli 96, attuata il 18 aprile 1978. È stato incredibilmente ignorato dai vertici dei Servizi segreti dell’epoca, dall’Interpol, da cinque processi Moro e due Commissioni parlamentari sul caso. Nemmeno le tre Commissioni parlamentari italiane Terrorismo, P2 e Mitrokhin lo hanno considerato.

Con questa scoperta, la comprensione dell’influenza atlantica sul delitto Moro va completamente rivisitata. Fino ad ora, gli Usa erano collegati alla vicenda tramite la figura di Steve Pieczenick. Lo psichiatra ed esperto anti-terrorismo viene inviato a Roma dal Dipartimento di Stato Usa per affiancare le autorità italiane nella gestione del sequestro, dopo che le Br pubblicarono una lettera che Moro inviava a Francesco Cossiga, uno dei padri fondatori di Gladio come sottosegretario alla Difesa, negli anni ‘60. Moro scrive di correre «il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole o pericolosa». È il momento di svolta del sequestro. Moro diventa una seria minaccia per la Nato: può rivelare la rete Stay-Behind “Gladio”, coperta dal segreto di Stato Usa. Ma il reperto 731 trovato in via Gradoli rimandava non a Pieczenick, ma al Supreme Allied Commander Europe, il quartier generale supremo delle potenze Alleate in Europa che sovrintese alla nascita di Gladio. Il generale del Supreme Allied Commander Europe era un massone: Alexander Haig jr, in carica dal 15 dicembre del 1974 al 1° luglio del 1979. Legato ad Haig era Michael Ledeen, analista neo-conservatore americano e specialista della disinformazione. Per conto della Nato, Ledeen piantò le tende al Ministero degli Interni retto da Francesco Cossiga durante i 55 giorni. La documentazione ministeriale che attestava la presenza di Ledeen al Ministero fu fatta sparire. Haig e Ledeen vengono associati a Steve Pieczenick, l’esperto anti-terrorismo inviato a Roma dal Dipartimento di Stato Usa. Pieczenick e Ledeen erano strategicamente complementari: il primo doveva coprire il versante italiano, depistando e disinformando; lo stesso fine era perseguito dal secondo, per il fronte internazionale.

È stato sorprendente, inoltre, scoprire “il marchio di fabbrica” di tutti coloro che abitavano a Roma, nell’appartamento di viale Giulio Cesare 47, poco dopo l’epilogo del caso Moro. Erano tutti amici – o comunque legati – a Feltrinelli: il brigatista Valerio Morucci (insieme ad Adriana Faranda), Giuliana Conforto, figlia della spia sovietica più importante in Italia (Giorgio), e Saverio Tutino, giornalista guevarista. Il Kgb era, infatti, attivo anche dopo la morte di Moro, come mostra uno dei due capitoli della riedizione di The masquerade.

Il vostro libro collega gli eventi storici del periodo 1970-1980 a dinamiche geopolitiche attuali. Potreste spiegare come le vicende di quel decennio continuano a influenzare la situazione geopolitica odierna e quali paralleli si possono tracciare con gli eventi contemporanei?

I livelli analitici sono due: quello italiano e quello internazionale. In merito al primo, è indiscutibile che il nostro Paese abbia sciaguratamente appiattito la politica estera alle direttive Nato. Da un trentennio l’Italia è governata ininterrottamente da un monocolore atlantista: il periodo peggiore vissuto dal Paese dal 1861, salvo i periodi di guerra. I motivi profondi di questa prassi italiana sono da ricondurre a ciò che accadde dal 16 marzo al 9 maggio 1978. Il trasversale “partito della fermezza” Dc-Pci, nato in quel frangente e avverso alla liberazione di Moro, è stato un unicum senza precedenti né continuatori. Il suo scopo, riuscito, era di preservare il bipolarismo di Yalta. Nel 2018 il socialista Rino Formica scrisse e inviò una breve ma densa lettera a Gero Grassi, membro della Commissione d’inchiesta sul rapimento di via Fani. Nella missiva, l’ex ministro delle Finanze del governo Craxi esplicitò come questo fosse il nodo cruciale del caso Moro.Dietro allo scontro tra la “fermezza” e la “trattativa”, si fronteggiarono “le sentinelle” dell’ordine di Yalta e “gli esploratori” di un nuovo ordine geopolitico multipolare e post-Guerra fredda. Vinsero coloro che vollero preservare quegli equilibri: quasi tutta la Dc e il Pci. Persero gli “esploratori”: Moro e il Psi di Craxi.

In merito al piano internazionale, bisogna riferirsi sempre al 1978. Zbigniew Brzezinski, all’epoca consigliere per la sicurezza nazionale del presidente statunitense JimmyCarter, teorizzò il concetto di arco di crisi, per il fianco sud della Nato. Identificando una regione che dal Nord Africa, attraverso il Medio Oriente, giungeva fino all’Asia Centrale e ai confini dell’India, Brzezinski teorizzò l’accerchiamento e l’aggressione dell’Urss. Gli Usa si sarebbero dovuti avvalere del sostegno dei Mujaheddin in Afghanistan, con la collaborazione del Pakistan e dell’Arabia Saudita. Ben oltre la caduta del Muro di Berlino, la dottrina Brzezinski venne implementata. Gli americani avviarono una politica di “moral suasion”, che convinse diversi Paesi dell’Europa orientale, ex alleati di Mosca, a scegliere di aderire alla Nato. Il 29 marzo 2004 furono accolte nella Nato Slovenia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Estonia, Lettonia e Lituania. Si creò, così, un cordone intorno ai confini occidentali della Federazione russa, che gettò le basi delle nuove tensioni sfociate nel 2022 nel conflitto russo-ucraino, inevitabile conseguenza a lungo termine dell’accerchiamento della Russia teorizzato dalla dottrina Brzezinski.

L’essenza della controversia odierna riguarda le sfere d’influenze decisa a Yalta e la loro rimessa in discussione unilaterale. È una situazione paragonabile alla crisi di Cuba del 1962. Pochi anni dopo infatti, nel 1966, ci fu evento cruciale per il terrorismo internazionale e italiano. The masquerade reloaded lo rivela.